di Gianni Rubagotti
www.clandestinoweb.com, 3 gennaio 2015
Queste vacanze di Natale molti radicali le hanno trascorse a modo loro, cioè andando a visitare le carceri italiane per lottare per lo stato di diritto nel nostro paese. Tra di loro anche lo scrittore (è autore di "Storia della Lega Italiana per il Divorzio") Domenico Letizia, segretario dell'Associazione Radicale Legalità e Trasparenza di Caserta ma con una interpretazione originale del pensiero di Pannella.
Ti definisci "anarchico liberale libertario e liberoscambista", cosa significa?
La mia formazione filosofico-politica è di matrice anarchica. Sono per l'abolizione di tutte le forme di coercizioni esistenti a partire dalle istituzioni statuali. Il grande paradosso dell'anarchismo, più di quello europeo che americano, ritengo sia quello di definirsi "comunista", poiché il pensiero anarchico dovrebbe a priori definirsi "liberale", ovvero, aperto a tutte le visioni della società che non arrecano violenza e "liberoscambista" poiché lo spontaneismo sia del vivere sociale sia dello scambio appartiene all'individuo senza alcun bisogno di "legge" che impone il come muoversi nel contesto sociale. Le istituzioni pretendono di essere obbedite. Ma perché si deve obbedire al potente? Questa è la domanda che si pone il libertario.
Come mai avendo queste convinzioni militi nei radicali e sei impegnato nell' Associazione "Legalità e Trasparenza", Radicali Caserta di cui sei segretario?
Ritengo validissima la formulazione teorica dell'avvocato (nonché mio "maestro") Fabio Massimo Nicosia che guarda al radicalismo come linea di percorso che dal liberalismo conduce all'anarchismo. Il vero obiettivo, oggi, per i libertari è riuscire ad applicare concretamente le analisi che Nico Berti ha riportato in un suo magnifico libro, intitolato: "Libertà senza Rivoluzione", ovvero, riuscire con il metodo nonviolento ad andare oltre la democrazia, non contro, e oltre il capitalismo, non contro. Il radicalismo con la sua enorme portata intensamente libertaria, di sovranità individuale e di tutela dei diritti umani e quindi diritti individuali è il percorso da intraprendere per l'affermazione della sovranità dell'individuo contro tutti i dogmi e le imposizioni sociali. La vita stessa di Marco Pannella è un percorso di libertà concreta lontana dai poteri costituiti.
Cos'è il Satyagraha dei radicali sulla giustizia? Come mai usare questa parola straniera?
"Noi siamo diventati radicali perché ritenevamo di avere delle insuperabili solitudini e diversità rispetto alla gente, e quindi una sete alternativa profonda, più dura, più "radicale" di altri. Noi non "facciamo i politici", i deputati, i leader ... lottiamo, per quel che dobbiamo e per quel che crediamo. E questa è la differenza che prima o poi, speriamo non troppo tardi, si dovrà comprendere". Il Satyagraha è il percorso di conoscenza e azione che conduce alla verità, alla luce della verità, il metodo gandhiano e quindi nonviolento e per questo estremamente incisivo in un contesto sociale animato da violenza diretta e indiretta. Il Satyagraha sulla giustizia è il metodo d'azione per l'affermazione dei diritti umani e civili di tutta la comunità penitenziaria, la proposta del diritto come priorità di una sana democrazia contro la forza della ragion di stato e del potere imposto. La problematica della giustizia, anche in un territorio particolarmente problematico come il casertano è una necessità da affrontare e risolvere.
Perché come Radicali Caserta avete passato queste vacanze occupandovi delle condizioni dei detenuti nella vostra zona?
Perché siamo davvero di "estrema sinistra", quella sinistra libertaria che ha a cuore gli ultimi del sistema sociale, quelli in fondo alla gerarchia sociale, abbandonati da tutti e rinnegati poiché colpevoli di "abuso" nella società. La funzione di un sistema sociale dovrebbe essere quella di riuscire a reinserire nel contesto sociale, preservando la libertà, ogni individuo, anche se ha sbagliato. Una volta capiti e compresi i propri errori, ritornare a vivere per la libertà propria e altrui. L'attuale sistema è la perpetuazione della violenza e la violenza genera violenza.
Ci sono altre forze politiche che vi hanno aiutato?
Qualcuno ci segue sia nel campo del centrodestra che tra le fila del Partito Socialista Italiano. In genere, mancano alle nostre iniziative i militanti e i dirigenti del Partito Democratico.
Che situazione avete trovato negli istituti che avete visitato?
La situazione degradante per la dignità umana che da tempo denunciamo. Ogni istituto ha delle specifiche problematiche legate al sovraffollamento, alla burocrazia, alla mancanza di sanità in carcere e alla non presenza del magistrato di sorveglianza che dovrebbe seguire il detenuto nelle sue richieste. Ritengo necessaria l'istituzione del Garante provinciale dei detenuti di Caserta. Una battaglia che speriamo possa condurre a qualche risultato.
Cosa rispondi a chi è contrario alla proposta radicale di Amnistia dicendo che così si liberano i delinquenti e non si ha la certezza della pena?
Semplicemente di contattarci e venir con noi a visitare un istituto penitenziario, partecipare ad un sit-in con i parenti dei detenuti e dopo possiamo discutere dell'Amnistia, penso però che dopo il percorso si sia cambiata idea.
Come anarchico consideri l'istituzione carceraria necessaria oppure sei aperto a una discussione sul suo superamento?
Il sistema penitenziario attuale ha fallito. Le carceri vanno abolite. Il suo superamento è una priorità non rinviabile. Non condivido la proposta "libertarian" di voler istituire carceri private poiché non è nient'altro che affidare ai privati il sistema istituzionale della giustizia dello stato. Oggetto di serio dibattito dovrebbe essere il superamento delle carceri con strutture simili di più alle "case famiglia", rieducare, comprendere e far comprendere, non distruggere e reprimere. Tutto qui.
Conosci il film di Ambrogio Crespi su Tortora?
Sì, un documentario degno di essere compreso, visto e rivisto su uno dei casi più scandalosi della storia contemporanea italiana. Inserirei la discussione e l'analisi di tale docufilm come esame in ogni facoltà di giurisprudenza in Italia.
di Zita Dazzi
La Repubblica, 3 gennaio 2015
Nel negozio di piazza Bettini lavoreranno a turno i detenuti del carcere. Fino a oggi il laboratorio sfornava prodotti che si consumavano in istituto. Il promotore del progetto: "Così i giovani si rimettono in gioco".
Ripartire dalle cose semplici, dalla fatica fisica, dall'emozione di fare una cosa buona con le proprie mani e vedere che questa cosa diventa anche un lavoro. Onesto. È questa la sfida che stanno affrontando i ragazzi del carcere minorile Beccaria che da gennaio produrranno pane fresco e lo venderanno in un negozio vero, esterno alla struttura dove scontano la loro pena, un panificio che aprirà in piazza Bettini 5, in zona Bisceglie, a pochi passi dall'istituto penale di via Calchi Taeggi.
In due alla volta, la mattina usciranno dalla cella per mettersi addosso un grembiule da panificatori ed andare al forno. Poi si metteranno dietro al bancone a servire i clienti. Una bella prova di concretezza ed umiltà, per cominciare a vivere su basi diverse, sfruttando le cose imparate dentro al Beccaria, dove da anni si tiene un laboratorio di panetteria. È il progetto "Buoni dentro" voluto dalla direttrice del carcere Olimpia Monda e da Claudio Nizzetto, della fondazione Eris. Un intervento di formazione partito grazie al supporto di Enaip (l'ente di formazione professionale delle Acli) e dell'Associazione Panificatori di Milano.
La novità è che da gennaio, i pani, le pizze e i dolci non verranno più solo consumati direttamente dentro al carcere, ma anche venduti al pubblico sia presso la cooperativa Coafra della Cascina Nibai di Cernusco sul Naviglio, sia nel nuovo negozio di piazza Bettini. L'intervento è stato lodato anche dal presidente del Tribunale dei minori Mario Zevola che ha parlato di "concrete possibilità di integrazione e opportunità per sviluppare le capacità personali" come "occasioni di recupero reale dei giovani detenuti".
Nel negozio saranno impiegati due ragazzi per turno, mentre il laboratorio interno al Beccaria ne forma altri due, per un periodo di circa sei mesi, cercando a rotazione di coinvolgere il maggiore numero di ospiti alla volta. "Il lavoro artigianale, presso un maestro di bottega, diventa un motivo di cambiamento, in un contesto di vita vera. I ragazzi si mettono in gioco in un ambiente pulito dove si dà loro fiducia, ruolo, obiettivi - spiega Nizzetto.
Il solo percorso formativo tradizionale non riesce ad accendere la curiosità e la voglia di rimettersi in gioco. Il lavoro è la chiave della rinascita". Ed è chiaro che la sfida è mettere i giovani che facevano le spaccate alle vetrine a maneggiare soldi e scontrini, in un'ottica nuova. Per chi è finito dentro per furto o spaccio "ricevere gli incarichi dal "mastro di bottega", gestire gli ordini dei clienti e la cassa in modo onesto, è un'esperienza di vita vera, la prova che si può vivere in un altro modo", aggiunge don Claudio Burgio, cappellano del Beccaria.
Il progetto punta sulla fiducia e sulla relazione, sull'apprendimento pratico. Nizzetto parla dell'"autostima" che dopo la fase della "trasgressione e dell'illegalità dimostra a chi è finito in cella che si può essere anche altro: dalla rilettura del proprio passato c'è un'ipotesi di futuro costruita nel presente con relazione con un "maestro". L'esperimento coinvolgerà sia ragazzi del Beccaria, sia giovani
adulti, reclusi a San Vittore perché hanno compiuto altri reati o superato la maggiore età, ma devono ancora finire di scontare la pena. Fra questi anche John, che ha frequentato il laboratorio: "Molti di noi sono i recidivi, ma un cambiamento è possibile quando ti accorgi di essere ancora valorizzato. Se si ricreano relazioni di fiducia e la speranza di qualcosa di bello per il futuro, diventa una nuova opportunità. E non ce la lasciamo scappare".
Ansa, 3 gennaio 2015
Un appello al ministro della Giustizia Andrea Orlando perché disponga al più presto un intervento al supercarcere di Parma dove il sistema di videosorveglianza e videoregistrazione è costantemente a rischio black-out, è arrivato dal deputato Pd Davide Mattiello, componente delle Commissioni Giustizia e Antimafia. Mattiello, il 30 dicembre scorso, aveva incontrato nel carcere di Parma, dove sono detenuti mafiosi di calibro, il presunto capo del sodalizio Roma Capitale Massimo Carminati detenuto in regime di 41/bis, il carcere duro.
In quell'occasione era emerso come il sistema elettrico del carcere non sia adeguato a reggere il carico di tensione del sistema. "La direzione del carcere - spiega oggi Mattiello - ha fatto richiesta per avere otto gruppi di continuità che garantiscano il funzionamento del sistema ma non ha ricevuto risposta. Sono passati tre giorni e non è successo nulla. Questa condizione rende ancora più stressante il lavoro degli operatori di polizia penitenziaria: il sistema può andare in tilt da un momento all'altro ma non si sa mai quando e per quanto tempo.
Quando il sistema va in black-out - conclude il parlamentare - l'unica modalità per garantire la sicurezza è il controllo a vista da parte degli agenti e in particolare del Gom per quanto riguarda il 41bis". Di qui l'appello al ministro Orlando perché disponga al più presto l'intervento. "Da parte mia continuerò a seguire la situazione", assicura l'esponente del Pd.
www.quartaparetepress.it, 3 gennaio 2015
Proseguono le interviste di QuartaParete nell'ambito dell'inchiesta finalizzata a conoscere meglio gli operatori culturali che svolgono attività all'interno delle istituzioni carcerarie. È la volta di Bano Ferrari.
Clown, docente universitario, scrittore, regista ed esperto in attività pedagogiche, nonché vincitore di diversi premi internazionali tra i quali l'Unicef 2001 come "Esperto qualificato nel recupero dei minori in difficoltà", Bano Ferrari, nel 1978, fonda il gruppo dei Barabbàs clown grazie all'incontro con i ragazzi del Centro salesiano di Arese, ex sede distaccata del penitenziario minorile Beccaria, rilevato dai salesiani negli anni Cinquanta e trasformato da centro detentivo in centro educativo per la valorizzazione della personalità e lo sviluppo della formazione dei minori a rischio. Ecco cosa ci ha raccontato della sua esperienza ultraventennale.
Cosa significa per Lei essere un clown?
Essere un clown e non fare il clown. Il clown è sì una tecnica ma, per me, è una condizione dello spirito, è un modo di guardare la realtà riservandosi sempre la possibilità di spostare il punto di osservazione, dando così la possibilità di scoprire l'inaspettato.
Il clown ha il suo habitat nel circo. Cosa accade quando viene trasportato in altri contesti?
Il clown nasce nel circo, anche se è presente, sotto altre forme, in tutta la storia del teatro. Nel circo ha trovato la sua collocazione naturale, lì è maturato, è cresciuto e ciascun interprete ha saputo trovare una strada originale che lo rendesse unico nell'eterno gioco tra "bianco" e "augusto". L'emigrazione, graduale del clown dal contesto circense al teatro e poi, di conseguenza, anche fuori dal teatro in contesti di "sofferenza" inizia negli anni '70. È importante sottolineare che, uscendo dal circo, il clown perde la connotazione iconografica tipica, ma non perde assolutamente lo spirito, la sua capacità di inciampare nella realtà, di mostrare i limiti dell'essere umano, di sorprendersi e stupirsi: capacità di apertura e di ascolto e relazione con l'altro.
Nell'ambito dell'istituzione carceraria la sua attività può aiutare i detenuti a guardare il mondo con occhi diversi?
Credo che questa capacità sia sotto gli occhi di tutti: il clown ti offre la chiave per poter aprire questa porta, per rendere più leggera e sopportabile la vita in un luogo di sofferenza come può essere un carcere, senza però perdere tutta la drammaticità della situazione.
Come nasce la compagnia Barrabàs clown e perché questo nome?
Il nome "Barabbàs" deriva dal fatto che in dialetto milanese i giovani delinquenti erano chiamati "barabitt" cioè piccoli Barabba, questo riferimento ci era piaciuto molto perché riusciva a mettere insieme due segni opposti e inaspettati : la vita ai margini della società quindi la sofferenza e il riso. La compagnia nasce al termine del mio servizio civile, come obiettore di coscienza, svolto dal 1977 al 1979 presso l'Istituto Salesiano di Arese che ospitava minori in difficoltà. L'incontro tra la figura del clown e questi giovani è stato sorprendente. L'"augusto" era ed è (l'esperienza continua tuttora) il loro eroe. Si identificano con questa figura di clown che è "out" fuori dalle regole, non accetta il potere, inciampa e si rialza, viene bastonato, deriso ma continua a mostrarci tutte le debolezze umane con candore, suscitando magari non la risata ma il sorriso.
Lei ha lavorato in alcuni istituti penitenziari. Come viene percepita l'attività di clownerie? Quali sono le difficoltà iniziale con cui deve scontrarsi?
Portare il clown dentro gli istituti di pena si scontra molto spesso con l'idea sbagliata e superficiale che il clown sia qualcosa adatto ai bambini, uno sciocco un pasticcione ma allo stesso tempo la bellezza sta nel fare scoprire che il clown è questo incredibile equilibrista del disequilibrio che può raccontare cose terribili con leggerezza, magari non suscitando il fragore di una risata ma il sussurro di un sorriso e una stretta allo stomaco.
Ha mai realizzato spettacoli in cui erano coinvolti detenuti?
Ho realizzato due spettacoli con i detenuti : il primo nel 1996 con i detenuti del carcere di S. Vittore, percorso che è durato sei mesi di incontri e allestimento dello spettacolo, l'altro nel 2011 con i detenuti del carcere di Opera dopo un mese di laboratorio sul clown. Mi viene spontaneo parlare dell'esperienza più lontana perché più lunga articolata e complessa. Entrato in carcere con un progetto sponsorizzato dalla Regione Lombardia e curato dall'Università Cattolica e dal Crt mi sono trovato subito immerso in una serie di richieste pressanti, da parte dei detenuti, sulla necessità di raccontare, attraverso lo spettacolo, tutta l'assurda e disumana vita carceraria che li schiacciava inesorabilmente. All'inizio sembrava loro assurdo che io fossi un clown e che intendevo lavorare con loro utilizzando il modo di pensare ed agire tipico di questo personaggio. Per i detenuti appariva talmente lontano questo linguaggio che non intravedevano possibilità alcuna di centrare il loro obiettivo. Per raccontare una tragedia è necessario mettere in scena la tragedia stessa con un linguaggio e con le tinte necessari classicamente ad esprimerla. Lentamente ma inesorabilmente sono rimasti colpiti ed hanno scoperto quanto può essere "tragico" un clown e quanta efficacia abbia la "leggerezza" che ferisce, denuncia ed urla. Così è nato Aria, spettacolo d'evasione dove raccontavamo una giornata tipo nel carcere e denunciavamo, facendo sorridere, il sovraffollamento, l'affettività negata, i tentativi di suicidio i rapporti umani distorti dall'assenza stessa dell'umanità. Alla fine dello spettacolo veniva lasciata in scena la copia manichino di ogni attore che se ne andava canticchiando tra il pubblico.
Nel 2007 ha ricevuto il premio Unicef come "Esperto qualificato nel recupero dei minori in difficoltà". Secondo Lei quanto può essere utile l'attività teatrale per le persone cosiddette "difficili" e, in particolare, per i detenuti?
Oltre alle particolarità del lavoro del clown che ho già sottolineato in precedenza, vale la pena di riflettere su altri elementi messi in atto da questa esperienza. Innanzitutto il clown porta ad una profonda conoscenza di sé, a "volerti bene" a conoscerti anche negli aspetti meno piacevoli della tua personalità, ad imparare la pazienza, l'apertura verso l'altro, l'ascolto, la collaborazione, impari a non dare nulla per scontato, tieni sveglia l'attenzione e l'immaginazione, perdi tempo e scopri la bellezza dell'essere inutile, cadi, inciampi ma sempre pronto a rialzarti per ricominciare. Inoltre, utilizzi linguaggi a volte dimenticati come quelli del corpo.
www.infooggi.it, 3 gennaio 2015
In scena questo pomeriggio presso la Casa Circondariale "Ugo Caridi" di Catanzaro i detenuti-attori con la commedia, scritta apposta per loro, dal titolo "L'ora d'aria", ideata e diretta da Mario Sei, autore e regista di diverse commedie teatrali nonché assistente volontario presso il carcere di Catanzaro (Siano).
Bravi, disinvolti e molto professionali i detenuti che hanno divertito ma soprattutto regalato tanti momenti di riflessione ai compagni presenti, ai loro familiari e ai tanti ospiti, tra cui tutti gli attori della compagnia nota come Teatro 6 "piccola fucina teatrale". Simpatica e divertente questa commedia che riserva nel finale, momenti struggenti, grazie alla lettera di uno dei quattro figli della coppia (protagonista di questa commedia) che si ritrova in carcere
Questo figlio scrive ai genitori una lettera intensa in cui racconta la sua vita dentro il carcere, la sua capacità e volontà di riprogettare la propria vita, l'incontro con altri detenuti, la possibilità di leggere tanto, di studiare, di conseguire il diploma. La possibilità per lui di comprendere il valore della vita. Scrive del valore della libertà, della bellezza di poter camminare a testa alta... tutto ciò che a lui è stato in qualche modo negato per colpa di scelte scellerate e sbagliate. Una commedia quindi bella ed intensa che ha permesso in questi 5 mesi ai detenuti di comprendere, oltre alle tecniche base, un nuovo modo di stare insieme, di portare avanti un vero e proprio gioco di squadra, ma anche a riflettere sul proprio stato di detenuto. Certamente il carcere è e deve restare un luogo di detenzione ma non sono (come si dice nella lettera che perviene ai due poliedrici genitori) dei vuoti a perdere, non devono essere oggetto di emarginazione o oggetto di pregiudizi sterili. Devono essere, per quanto possibile, si detenuti, ma ancor prima uomini, con le loro storie, fatte anche di umanità, di carità, di speranza. Non bisogna giudicare, l'unico giudice è Dio, dice il figlio nel testo della lunga lettera.
Il teatro quindi in questo caso ha svolto anche un ruolo pedagogico, rieducativo e quindi non solo un momento ludico, un diversivo, ma molto di più e la dimostrazione è stato l'apprezzamento dei tanti presenti e la visibile commozione. Quello di oggi quindi ha riassunto un viaggio-percorso durato alcuni mesi, caratterizzato da momenti di determinazione, di entusiasmo, di passione, di impegno, ma anche di qualche momento naturale di scoraggiamento e di paura di non farcela. Oggi pomeriggio però hanno dimostrato di essere capaci di esprimere un'autenticità raramente rinvenibile in un professionista, una spontaneità e un'immediatezza che si fa evidente nei lapsus, negli scherzi, negli approcci e quindi di farcela.
Hanno tirato fuori la stessa genuinità che possiede probabilmente qualunque uomo della strada, dal momento in cui si trasforma in "attore", in quanto, il detenuto anche se recita "dentro", è il frutto di un "fuori", che non può essere dissolto solo perché segregato e nascosto.
La differenza diventa la forza e la magia del teatro in carcere, e si manifesta nel carico di "energie" che viene riversato sulla scena, un condensato di sofferenza e frustrazione, ma anche di desiderio di riprovarci. Recitare, incontrarsi, conoscerci, ha permesso loro il libero flusso di emozioni e sentimenti rimossi e repressi dalla contenzione carceraria e li ha spinti alla cooperazione, alla collaborazione, allo scambio con gli altri, al gioco di squadra.
La sensazione che è stata colta e che appare più forte è stata che i detenuti hanno colto il messaggio di provare perlomeno a migliorare la loro dimensione in cui essi vivono, operando con modalità opposte dove è contenuta, collettive anziché individualizzatrici, coinvolgenti anziché segreganti, portatrici di arricchimento affettivo e artistico.
Fare teatro può significare che l'uomo della pena riscatti temporaneamente il suo "involontario" isolamento, smettendo di mimetizzarsi, iniziando a narrare, a narrarsi. Come qualcuno ci ha lasciato detto " fare teatro in carcere riesce ad avere senso soltanto quando il teatro stesso se ne avvantaggia: non quando resta prigioniero". Molto bella la presenza di un ex-detenuto, uscito lo scorso mese di novembre e che comunque è venuto apposta, da uomo libero, a prendere parte alla rappresentazione, nel ruolo di vecchio e saggio nonno. Molto emozionante la presenza dei congiunti dei detenuti-attori che hanno potuto prendere parte a questa intensa giornata che resterà certamente nella mente dei detenuti, delle famiglie e degli ospiti.
Consegnata dal regista una pergamena ad ogni singolo detenuto-attore , un attestato di attore provetto, sul retro una bella dedica, ispirata ad una nota poesia di Madre Teresa sulla speranza, quella speranza che non deve essere mai perduta.
La direttrice della struttura Dr.ssa Angela Paravati che per prima ha creduto in questo progetto di Mario Sei ha espresso parole di grande soddisfazione, auspicando che all'interno della struttura possa nascere un teatro stabile ed ha espresso parole di apprezzamento nei confronti dei detenuti-attori che sono stati capaci di regalare divertimento e tanti momenti di riflessione. Consegnata al regista ed all'educatrice Dr.ssa Di Filippo una pergamena con una dedica dei detenuti attori sulla loro bella esperienza teatrale, ma ancor prima esperienza di vita.
di Giuseppe Pulina
La Nuova Sardegna, 3 gennaio 2015
È parte integrante del carcere, ma sarà uno spazio dedicato all'interattività e al dialogo. È questa la mission che dovrà compiere il Teatro dello Scambio, la nuova, capiente e ospitale struttura che è stata realizzata all'interno della casa circondariale di Nuchis.
Un progetto impegnativo, che deve molto alla lungimiranza della direttrice dell'istituto, Carla Ciavarella, e che il territorio sembra avere compreso e deciso di condividere. Ecco perché l'inaugurazione del teatro del carcere ha fatto registrare una grande partecipazione di pubblico. Il tutto esaurito, si direbbe in questi casi, come a propiziare un crescendo di successi per un progetto che, nato all'interno della struttura carceraria, ne proietterà oltre i muri l'immagine. Un po' come ha sostenuto il vescovo, monsignor Sebastiano Sanguinetti, che, benedicendo il teatro, ha definito questo "un luogo d'incontro e di crescita umana, sociale e culturale".
Un luogo che, come ha riconosciuto anche il sindaco Romeo Frediani, catalizza l'impegno di tante persone, tra le quali Alessandro Achenza, fondatore e direttore della Compagnia Stabile del Teatro dello Scambio e presidente di Trait d'Union, l'associazione che, grazie anche all'importante contributo del Comune di Golfo Aranci, ha portato a termine la realizzazione della struttura. "La Compagnia e il teatro - ha dichiarato la direttrice Carla Ciavarella - sono sogni che si avverano grazie alla donazione di Golfo Aranci e del suo sindaco, Giuseppe Fasolino, e di Alessandro Achenza, che io, un anno e mezzo fa, ho forzatamente reclutato".
E proprio Achenza ha spiegato il perché del nome dato alla struttura: "Lo abbiamo voluto chiamare Teatro dello Scambio perché, come diceva Balzac, bisogna imparare ad arricchirsi delle reciproche differenze e capire che ognuno di noi può fare tesoro dell'esperienza di vita di tutti, anche di chi ha commesso degli errori".
Uno scambio vero e proprio è poi quello che si è materializzato sul palco, dove tre bravi e promettenti attori della compagnia del carcere hanno dato vita, insieme ad altri attori del "Contenitore delle arti", alla più autentica magia del teatro: quella che porta lo spettatore ad immedesimarsi nelle vicende rappresentate, perché il teatro che racconta la vita, quando è ben fatto, non si separa mai del tutto da questa.
E, allora, bravi tutti: da Achenza, regista e attore, sempre attento a dettare i tempi giusti e a imbeccare la battuta mordace, a Elena Frau, Lina Sias, Licia Azara e Fausto Pischedda. All'altezza del compito e a loro agio in ruoli che per loro erano del tutto nuovi si sono dimostrati anche Giuseppe Bottone, Carmelo Guidotto e Vincenzo Fasano. Ma dietro le quinte sono stati in tanti a dare una mano come Antonio Padovano e Mirko e Mauro nella cabina di regia. Il 3 gennaio si replicherà ancora una volta con l'ingresso libero per tutti. Nuovi "scambi" potranno consumarsi e, come auspica Carla Ciavarella, il teatro del carcere potrà diventare sempre più uno degli spazi culturali della città e della Gallura, come un ponte da attraversare sempre più frequentemente.
www.informazione.it, 3 gennaio 2015
Per la prima volta un detenuto in Belgio ha richiesto e ottenuto di essere ucciso sottoponendosi all'eutanasia. Frank Van Den Bleeken, internato in una prigione da quasi 30 anni per vari reati sessuali, sarà ucciso domenica 11 gennaio presso la prigione di Bruges. L'uomo di 51 anni stupratore seriale e assassino, recidivo e conscio di esserlo aveva chiesto al ministro della Giustizia belga di essere mandato in un centro di cure specializzato in Olanda o, in alternativa, di essere ucciso con l'eutanasia.
Frank Van Den Bleeken è seguito da diversi anni da psichiatri, ed è rinchiuso in un carcere belga, in isolamento per 23 ore al giorno, senza ricevere, a suo dire, le cure che la sua malattia mentale richiede. Tutti gli esperti dicono che egli è malato di mente e soffre gravemente per la sua detenzione. È inoltre consapevole che senza adeguata terapia, egli rimane un pericolo per la società.
È quindi arrivato anche il via libera dei sanitari all'eutanasia dell'uomo, soddisfacendo così tutti i criteri previsti dalla legge belga entrata in vigore nel 2002 e rivista quest'anno introducendo il diritto alla "dolce morte" anche per i bambini. Nell'arco di 12 anni, sono sempre di più i belgi che hanno fatto ricorso all'eutanasia, in grande maggioranza fiamminghi. Solo nel 2013, il numero di persone che ha deciso di porre un termine alle loro sofferenze è stato del 27% più alto rispetto al 2012, raggiungendo il record di 1.807 casi. Insomma, per Giovanni D'Agata, presidente dello "Sportello dei Diritti", da quando il Belgio ha legalizzato l'eutanasia, nel 2002, la sua applicazione si è gradualmente estesa. con l'inclusione dei bambini fra le categorie che hanno "diritto" ad esigere un'iniezione che metta fine alla loro vita.
Uno studio pubblicato dall'associazione dei medici canadesi ha evidenziato che un terzo dei casi di eutanasia nella regione fiamminga del Belgio sono stati portati a termine senza l'esplicita richiesta del paziente, poiché questi era inconscio o affetto da senilità tale da non poter dare il suo consenso. In quei casi a decidere la morte del paziente è stato il suo medico. Ancora più allarmanti sono i casi in cui è un infermiere ad amministrare l'iniezione letale. In quelle circostanze, in tutto il Belgio, la percentuale di morti senza esplicito consenso sale al 45%. È stato lo stesso studio a concludere che i dati confermano la presenza di "gruppi di pazienti vulnerabili a rischio di finire la loro vita prematuramente contro la loro volontà".
Adnkronos, 3 gennaio 2015
Il ministero indiano degli Interni si è espresso contro la concessione di un permesso natalizio per Salvatore Girone perché considerava la sua permanenza in India l'unica garanzia per il ritorno di Massimiliano Latorre. Lo scrive oggi il quotidiano indiano "The Economic Times", mentre si avvicina la scadenza del 12 gennaio entro la quale dovrebbe rientrare il fuciliere di marina colpito da ictus.
Tali considerazioni compaiono in istruzioni scritte inviate ai ministeri della Giustizia e degli Esteri, in vista dell'udienza della Corte Suprema che poi respinse la concessione di un permesso di ritorno in Italia per Natale a Girone e il prolungamento del soggiorno di Latorre. "Il ministero degli Interni ha scritto che la richiesta di Girone doveva essere fortemente contrastata di fronte alla Corte Suprema. Veniva detto che la presenza di Girone in India era l'unica garanzia del ritorno di Latorre in India", ha raccontato un alto funzionario, citato dal quotidiano.
La stessa fonte ha spiegato che il ministero degli Interni aveva espresso la sua obiezione in forma scritta anche in settembre durante le consultazioni interministeriali per decidere la posizione del governo di Nuova Delhi sulla richiesta di Latorre di tornare in Italia per curarsi. Allora il dicastero aveva dichiarato che in India erano disponibili migliori cure per Latorre e che se era così malato non era certo opportuno un lungo viaggio. Ma le due obiezioni furono ignorate e il governo non si oppose alla richiesta di ritorno. La Corte Suprema diede così il via libera ad un permesso di ritorno per quattro mesi per cure mediche.
di Renzo Guolo
Il Centro, 3 gennaio 2015
Eccole, le ragazze italiane rapite nei dintorni di Aleppo in Siria lo scorso luglio. Compaiono in un video messo in Rete, avvolte nell'abaya, il lungo velo nero che copre testa e capo, diffuso originariamente nel Golfo e poi esportato dai gruppi islamisti nel resto del Medioriente sunnita. Nel breve, drammatico, messaggio, le due volontarie, provate in volto e nel corpo, si dicono in grave pericolo. Potremmo essere uccise, affermano facendo appello al governo italiano e ai suoi mediatori perché possano essere riportate a casa prima di Natale.
Un video, ma ancor più, parole, seppure eterodirette, che confermano come sia in corso una trattativa, e che, come rivendica dopo la "scoperta" nel web del filmato la stessa organizzazione che le tiene in ostaggio, Greta e Vanessa non sono nelle mani dell'Is ma del fronte Al Nusra, al quale sarebbero state cedute dopo il sequestro da parte di predoni ribelli.
Carcerieri non certo meno duri, ma che almeno sin qui, non hanno seguito le tremende pratiche "rituali" messe in atto da John il Boia e dagli altri membri del famigerato circuito penitenziario dello Stato islamico. Il gruppo guidato dallo sceicco siriano al Golani, non ha decapitato ritualmente ostaggi occidentali. Al Nusra aderisce a Al Qaeda e non all'Is.
E la leadership qaedista, memore dell'isolamento in cui si era venuto a trovare in Iraq il gruppo di Zarkawi, con il suo stragismo, le sue brutali azioni nei confronti degli altri gruppi confessionali, le sue macabre esecuzioni rituali, ha imposto una linea che non si prestasse a reazioni di rigetto. Al di là delle differenze strategiche - i qaedisti prediligono il Nemico lontano, l'Is quello vicino -, questo atteggiamento è divenuto una discriminante tra i due gruppi. Una linea "nazionale", dovuta al fatto che Al Nusra è ormai composto prevalentemente da siriani, inevitabilmente più attenti alle dinamiche e alle relazioni locali.
La necessità di garantire flussi di finanziamento, è divenuta per Al Nusra una priorità dopo che gli Usa hanno sollevato con forza la questione di individui e organizzazioni non governative del Kuwait che foraggiano il Fronte al-Nusra e altre organizzazioni estremiste in Siria. Monetizzare la presa di ostaggi, permette di colmare, almeno parzialmente, gli introiti mancanti. Anche perché l'espansione dei rivali dello Stato Islamico, verso il quale al Nusra, che pure è stato a lungo il gruppo militarmente più efficiente nella lotta a Assad tanto da svuotare le fila dell'Els, i ribelli non islamisti, ha subito a sua volta un'emorragia di combattenti stranieri nei confronti del gruppo di Al Baghdadi. Svolta che ha indebolito il ruolo di Al Nusra, divenuto meno importante anche agli occhi dei suoi più o meno occulti finanziatori. Alimentare le casse è così divenuta una priorità. E gli italiani, come del resto gli altri europei, ad eccezione dei britannici accomunati nella linea dura agli americani, pagano.
Del resto i nostri servizi d'intelligence parlano di fase delicatissima, di momenti in cui tutto si può concluder. e positivamente o precipitare in un dramma. Il fatto che il video sia uscito solo ora, anche se il cartello tenuto da una delle ragazze indica, senza possibilità di riscontro la data del 17 dicembre, significa che la fase di massima pressione sulle autorità italiane è cominciata. Fare vedere i due ostaggi vivi, dopo che si era temuto a lungo per la loro sorte e mancavano immagini che confermassero il loro essere in vita, significa che siamo al finale di partita. Certo, non sarà una trattativa facile.
Un esponente di Al Nusra ha sottolineato come l'Italia sia nel fronte ostile all'islam radicale e vada annoverata nel campo del Nemico, statuto che rende particolarmente complicata la situazione di Greta e Vanessa. Ma, in Siria come altrove, gli jihadisti hanno mostrato spesso una linea pragmatica, finalizzata innanzitutto al conseguimento di un risultato destinato a salvaguardare gli interessi dell'organizzazione. Potrebbe essere così anche questa volta.
Nova, 3 gennaio 2015
La magistratura kosovara ha chiesto il rientro in carcere di sei ex combattenti dell'Esercito di liberazione del Kosovo (Uck) rilasciati su cauzione nel processo che li vede imputati per crimini di guerra. Lo riferisce il quotidiano locale "Gazeta Express", affermando che secondo la procura esiste il rischio di intimidazione dei testimoni.
La richiesta risale al 22 dicembre scorso, tre giorni dopo il rilascio degli ex combattenti del "Gruppo di Drenica", cellula dell'Esercito di liberazione attiva nel Kosovo centrale, accusati aver commesso abusi sui prigionieri nel centro di detenzione Likovc. Tra gli imputati figurano anche Sylejman Selimi, ambasciatore kosovaro a Tirana ed ex comandante delle Forze di sicurezza del Kosovo, e Sami Lushtaku, sindaco della città di Skenderaj-Srbice. La procura ha proposto come alternativa alla detenzione un aumento della cauzione per ciascun imputato.
Secondo quanto riferito dagli avvocati difensori alla "Rete per il giornalismo investigativo per i Balcani" (Birn), Lushtaku ha pagato 50 mila euro di cauzione. Alcuni degli imputati erano in custodia cautelare da 19 mesi. Tutti si sono dichiarati non colpevoli di torture e maltrattamenti dei prigionieri civili detenuti nel centro di detenzione Likovc- Likovac dell'Uck nel 1998.
Un ex prigioniero nel centro di detenzione Uck di Likovc (Kosovo centrale) ha accusato Selimi di averlo picchiato in diverse occasione nell'autunno del 2008 e di subire ancora oggi le conseguenze delle percosse. "Mi chiamava spia serba. Mi hanno ferito a una spalla, il mio occhio destro è stato danneggiato e ancora oggi non riesco a sentire bene dall'orecchio destro. Mi hanno rotto tre costole a sinistra e tre a destra", ha detto il testimone protetto in una deposizione da un luogo segreto attraverso un collegamento video.
Secondo l'atto di accusa, nel settembre del 1998 Sylejman Selimi, in qualità di alto esponente dell'Uck e di responsabile del centro di detenzione di Likovc, in collaborazione con Sami Lushtaku (sindaco della municipalità di Skenderaj-Srbice), Avni Zabeli e Sahit Jashari, avrebbe "abusato del testimone A picchiandolo a mani nude e con bastoni di legno".
Tra le altre persone coinvolte figurano anche il sindaco di Glogavac, Nehat Demaku, e suo fratello, il parlamentare Fadil Demaku, membro del Partito democratico del Kosovo (Pdk) del premier uscente Hashim Thaci.
L'ex comandante è anche accusato di aver "ordinato al testimone B, un altro civile detenuto nel centro di Likovc, di colpire ripetutamente il testimone A una con un'asse di legno e di prenderlo per i genitali con uno strumento di ferro, trascinandolo a terra". Il testimone B ha riferito ieri di non essere più in grado di avere rapporti sessuali a causa delle violenze subite.
Nel mese di maggio, Selimi è stato assolto dalle accuse di crimini di guerra in un procedimento separato in cui il diplomatico era accusato insieme ad altri tre ex combattenti dell'Uck di aver aggredito due donne albanesi detenute sempre a Likovc. La corte ha stabilito che non vi sono prove sufficienti a sostegno delle accuse presentate dai pubblici ministeri della missione europea Eulex.
Un altro sospettato, Sahit Jashari, è indagato, tra le altre cose, per aver "violato ripetutamente l'integrità fisica di Ivan Bulatovic, un funzionario di polizia serbo tenuto prigioniero dall'Uck". Più precisamente, si legge nella bozza dell'atto di accusa pubblicata da "Birn", l'imputato ha portato in diverse occasioni Ivan Bulatovic nella piazza del mercato di Likovc-Likovac, annunciando pubblicamente che chiunque volesse colpire Bulatovic poteva farlo, lasciando la vittima alla mercè di un indeterminato numero di persone.
Lo scorso aprile due persone sono state incriminate in Kosovo dalla missione europea Eulex per violazione delle norme sul segreto istruttorio nel processo Drenica. "Entrambi gli imputati sono accusati del reato di violazione del segreto istruttorio e uno degli imputati è stato anche accusato di tentata ostruzione delle prove o atti ufficiali", si legge in un comunicato pubblicato da Eulex. Secondo la stampa locale, i sospettati sono il giornalista kosovaro Milaim Zeka e l'imprenditore Rrustem Rukolli. Zeka era stato precedentemente interrogato dagli investigatori internazionali nel novembre dello scorso anno per aver intervistato nel suo show sull'emittente televisiva "Rtk" dei testimoni protetti nel caso Drenica.
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