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di Giovanni Bianconi

Corriere della Sera, 2 marzo 2022

L’analisi di Bruti Liberati, ex procuratore di Milano. La “rivoluzione” di Mani Pulite, vera o presunta che fosse, ha avuto tra le sue conseguenze l’ingresso delle telecamere nei palazzi di giustizia. Non che prima non entrassero, ma erano casi rari. Da allora invece divenne prassi quotidiana (successivamente rientrata, almeno parzialmente).

Il processo-simbolo di quella stagione, a carico del manager Sergio Cusani, venne trasmesso in diretta tv, le deposizioni dei leader di partito interrogati dal pm Antonio Di Pietro commentate da un esperto del settore insieme al telecronista, come durante una partita di calcio. E i giudici, dopo aver pronunciato il verdetto, si intrattennero sugli effetti di una simile esposizione mediatica.

“A giudizio di questo collegio - scrissero nella premessa alle motivazioni della sentenza - i vantaggi si sostanziano nell’aver reso noto in modo immediato a un vasto pubblico i rapporti tra la politica, il mondo economico e gli atti di cattiva amministrazione; gli inconvenienti si riassumono nel rischio che il processo perda agli occhi del pubblico la sua caratteristica di esame approfondito del caso singolo nel rispetto delle forme che garantiscano l’imparzialità del giudizio, per diventare la rappresentazione di uno spettacolo di vita dove hanno libero sfogo le reazioni più immediate e passionali che non è possibile controllare o prevenire”.

Non più, quindi, un dibattimento dove accusa e difesa si confrontano davanti al giudice chiamato a verificare l’eventuale responsabilità penale di un singolo imputato per un singolo reato, bensì una sorta di rito collettivo andato oltre il suo significato istituzionale. Effetto negativo che si somma a quello (positivo, secondo i giudici) di svelare al grande pubblico la connessione tra politica, economia e malaffare.

Queste considerazioni, che danno conto di quanto pure il tribunale si sentì protagonista dello “spettacolo” andato in scena, sono ricordate da Edmondo Bruti Liberati nel suo nuovo libro “Delitti in prima pagina. La giustizia nella società dell’informazione” (Raffello Cortina Editore, pagg. 276, euro 19,00): un compendio di fatti e riflessioni approfondite e critiche, senza difese corporative da parte dell’ex magistrato (è stato procuratore di Milano fino al 2015) e senza scadere nelle strumentalizzazioni in cui spesso s’inciampa affrontando questo argomento.

Nei trent’anni trascorsi da Mani Pulite a oggi, l’evoluzione dei rapporti tra procedimenti penali e pubblicità mass-mediatica ha portato ai processi celebrati in tv prima ancora che nelle aule di giustizia, e alla sovraesposizione delle toghe (soprattutto pubblici ministeri) da cui sono derivate anche carriere politiche (quasi mai luminose).

L’ex procuratore analizza tutto questo con occhio critico: “Il protagonismo di taluni magistrati genera effetti perversi a cascata. La comunicazione “urlata” di taluni impedisce approfondimenti su temi delicati come quelli della giustizia e dei processi, suscita per reazione comunicazione altrettanto “urlata” di altri, stimola la stucchevole contrapposizione delle tifoserie dei giustizialisti e dei garantisti”.

E di tutto avrebbe bisogno, il dibattito sulla giustizia e sulla sua ordinaria amministrazione, tranne che di tifoserie. Invece è quel che accade. Perché al ruolo sempre maggiore acquisito dalla magistratura, soprattutto a causa della gestione delle emergenze scaricata su di essa dal potere politico (terrorismo, mafia, corruzione e altri fenomeni delinquenziali), ha fatto da contrappeso l’incapacità di quello stesso potere politico di fare i conti con le realtà emerse da giudizi e processi, al di là dei verdetti.

Bruti Liberati racconta di altri Paesi dove le classi dirigenti sono in grado di “attivare la responsabilità politica indipendentemente e a prescindere dalla responsabilità penale”, attuando il sano principio di una moralità pubblica con “valori propri e codici deontologici indipendenti”; quelli secondo cui un condannato può restare al suo posto perché la moralità del suo comportamento non risulta compromessa dai reati commessi, e viceversa un assolto debba abbandonare la carica per i motivi opposti. Un traguardo che richiederebbe l’impegno di tutti. Perché, chiosa Bruti, “povera la società che affidi l’etica pubblica alla magistratura penale, ma povera la magistratura che alimenti questa distorsione!”.