di Conchita Sannino
La Repubblica, 4 marzo 2022
Intervista all’ex Guardasigilli nel governo Monti. Su riforma e referendum dice: “Bene lo stop alle porte girevoli. E sì anche alle valutazioni dei legali sui magistrati”.
“Le riforme della giustizia? Ma non ci sono ancora testi definitivi da commentare: si possono solo esaminare alcuni dei principi che emergono. Lasciando che il Parlamento lavori. Sotto gli occhi abbiamo adesso questa atroce guerra. È confermata la notizia del missile che ha colpito la centrale termoelettrica a Kiev?”.
Paola Severino, ex ministra della Giustizia del governo Monti, docente e decana degli avvocati, da sei mesi al vertice della Scuola nazionale dell’Amministrazione su nomina del premier Draghi, non nasconde il turbamento “per questo sanguinoso conflitto esploso in Europa. Chi avrebbe mai detto che, proprio nel ventennale della Corte Penale Internazionale che ci apprestavamo a celebrare, e al cui statuto lavorammo qui a Roma, firmato da 123 paesi, questo strumento sarebbe tornato di drammatica attualità”.
Lei, da accademica, è stata rettore ed è ora vicepresidente dell’Università Luiss. L’ha stupita la vicenda dell’Ateneo della Bicocca sulla tentazione di cancellare Dostoevskij?
“Confesso che non ne ho compreso le motivazioni. Sarebbe stata una decisione singolare, per fortuna rientrata. Mi pare che il valore culturale e letterario di un autore come Dostoevskij non possa essere messo in discussione. Specie perché è in momenti come questi che abbiamo bisogno della profondità di una riflessione sulla condizione umana, che l’arte è in grado di promuovere, anche nei contesti più dolorosi perché alimenta speranze e abbatte barriere”.
È una guerra che non abbiamo voluto vedere?
“Forse è così. Ero tra quelli che non se l’aspettavano. Fino al giorno prima, l’assoluta maggioranza dei Paesi riteneva che si trattasse solo di una minaccia. Anzi, a più di qualche osservatore qualificato sembrava che si stesse allentando la tensione intorno all’Ucraina. Poi, proprio quel giorno, le foto dai satelliti americani ci hanno mostrato alcune attività, come la costruzione di un ponte sul fiume nottetempo, che potevano preludere alla guerra. La verità è che non volevamo crederci: perché l’idea dell’aggressione a un Paese sovrano, e il fatto che questo avvenisse nella nostra Europa, era così lontana dalla nostra cultura, che lo abbiamo ritenuto inaccettabile”.
La minaccia atomica è reale?
“Ci sono tante paure, di diverso livello, con cui facciamo i conti. E soprattutto: viviamo tutto in diretta, ci sono fuochi vivi che ardono a poche centinaia di chilometri da casa nostra, immagini che ci interrogano. La minaccia atomica è retrostante a tutta questa guerra: ma forse è proprio quella che fermerà il conflitto. E poi penso ai sentimenti che suscitano le immagini: donne e bambini sotterrati nei rifugi, al freddo che rischia di non dare tregua. Sembra di essere ripiombati in un Medioevo. Lì c’erano guerre e carestie. Qui una pandemia non ancora sconfitta e un conflitto bruciante”.
E come si combatte il Medioevo, professoressa?
“Con la solidità delle istituzioni democratiche, con la continuità dell’impegno di noi tutti. E ora anche la pubblica amministrazione deve fare la sua parte: con l’assegnazione e il migliore impiego dei fondi del Pnrr. È un momento di grandi prove per il Paese. Un accento positivo lo suscita un’Europa in cui finalmente cadono alcune barriere, come ad esempio quelle di Dublino. Ci prepariamo ad accogliere tanti profughi. La nostra Unione si scopre più coesa, più pronta alle reazioni. Mi hanno colpito quei due segnali in particolare: Svizzera e Inghilterra”.
Lei però, da avvocata e accademica, è stata la prima donna Guardasigilli italiana. Un fronte politico acceso è quello della giustizia. La campagna referendaria creerà tensioni sul cammino delle riforme per il Csm e la giustizia?
“La premessa è che le leggi non sono immodificabili. Chiaro che oggi abbiamo rimesso la valutazione delle leggi da una parte al Parlamento e dall’altro ai cittadini. Sono due strade certamente diverse, vedremo”.
Legge Severino, la normativa che porta il suo nome non a caso: nacque sull’onda di una questione morale, contro gli impresentabili nel Parlamento e alla guida degli enti. Lei si era finora sempre sottratta a commenti: ma cosa pensa del quesito referendario, accettato dalla Consulta, che impedisce la sospensione degli amministratori dopo una condanna in primo grado?
“Ho sempre detto che le norme vanno monitorate. Il quesito approvato dalla Corte Costituzionale si riferisce appunto allo specifico della sospensione dei sindaci dopo il primo giudizio. Se l’applicazione di quella legge, specie in riferimento all’abuso di ufficio, ha portato a constatare che molte di quelle sentenze venivano modificate in appello, è legittimo che si suggerisca una modifica. Poi ci sono anche altri progetti in corso”.
Si riferisce alla proposta di legge incardinata al Senato. Arriverà prima il Parlamento o il referendum?
“Se non arrivasse la volontà del Parlamento, allora bisognerà rispettare la volontà dei cittadini, a patto che si esprima con il quorum previsto dalla Costituzione “.
Siamo allo stop per le cosiddette porte girevoli, tra magistrati e politica. Ha fatto bene il governo a chiudere quel passaggio?
“Parliamone in termini generali, per favore, perché la normativa è ancora fluida. A me sembra un sano principio culturale, prima ancora che giuridico, prevedere che un magistrato non possa candidarsi o assumere ruoli politici negli stessi luoghi in cui ha svolto le sue funzioni. L’ho vissuto, ad esempio, nella mia famiglia: come una scelta normale. Io ho avuto padre e zii magistrati. Mio padre era giudice a Napoli: e quando decise di lasciare la magistratura e di fare l’avvocato, non ricominciò come se nulla fosse in quella stessa città. Prese moglie e tre figli e si trasferì a 200 chilometri, a Roma. Io non dico che debba essere impedito per legge, ma penso che prima della norma dovrebbe sorgere questo sentire, una scelta di merito e non solo di stile”.
Tuttavia, dopo venti anni di discussione, la magistratura non risolveva questo vulnus. L’ultimo caso Maresca lo ha riproposto...
“Difatti io penso che bisognerebbe intervenire su questo terreno con la formazione. Da molto vado dicendo che le Università dovrebbero preparare i giovani: immaginare, penso a Giurisprudenza, un biennio finale che prepari anche culturalmente allo svolgimento delle professioni di avvocato o di magistrato sarebbe molto importante. Sono due funzioni entrambe fondamentali, e reputo il ruolo dell’avvocato tanto indispensabile quanto quello del giudice e del pubblico ministero. Tutte e tre queste figure contribuiscono all’attuazione della giustizia”.
E sulla separazione delle carriere: pensa sempre che è una delle opzioni in campo o ha cambiato idea?
“Io posso anche pensare che sia bene non separare le carriere. Purché ognuno degli attori svolga il proprio ruolo correttamente. Per esempio: il pm non dovrebbe dimenticare che la legge gli prescrive di cercare anche prove a favore dell’indagato; e il giudice deve curare la parità di posizioni tra accusa e difesa”.
Lei è anche una decana dell’avvocatura. Ora l’Anm storce il naso rispetto alla possibilità, prevista anche dai quesiti referendari e dalla riforma Csm, che gli avvocati diano le “pagelle” per la valutazione dei magistrati. Che ne pensa?
“Non ne farei una questione di pagelle. Direi che come i magistrati conoscono gli avvocati, anche gli avvocati conoscono i magistrati. Frequentiamo le stesse aule, ci conosciamo abbastanza per valutarci reciprocamente”.
C’è speranza che la giustizia diventi un servizio efficiente?
“La mia esperienza è di molti decenni. So bene che la giustizia è lenta e poco efficace. Ma con la medesima franchezza posso dire che abbiamo meccanismi di bilanciamento che accrescono la loro potenzialità, la fase più sbilanciata è quella delle indagini, ma poi nel contraddittorio la giustizia vince sempre. E mi lasci dire che conosco tanti magistrati, che lavorano operosamente, senza cercare le luci della ribalta. E questo deve sempre ispirare la nostra fiducia”.