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di Walter Veltroni

 

Corriere della Sera, 27 febbraio 2022

 

Un adolescente europeo di oggi se alza la testa non immagina l’uomo sulla Luna. Immagina un missile o un aereo impazzito. Di questo ora c’è traccia nel suo vissuto. Lo squarcio in quel palazzo di Kiev sembra il fratello, nel dolore, di quello provocato dagli aerei dirottati da al Qaeda l’undici settembre del 2001. In mezzo ventuno anni. Il tempo in cui diverse generazioni sono cresciute. Bambini, adolescenti, giovani. Per tutta la loro vita queste generazioni hanno vissuto sotto il segno della paura. Sì, hanno avuto i cellulari e i social network. Ma la cifra emotiva della loro formazione è stata la paura del presente. E del futuro. Qualcosa di innaturale, per i giovani.

Quell’attentato di New York, che mostrava la forza della violenza e la fragilità dell’innocenza. E poi il Bataclan, Charlie Hebdo, le teste tagliate, Fukujima, le catastrofi ambientali. Fino a questi due anni di pandemia che hanno cambiato il modo di studiare, amare, vivere di tutti i ragazzi del mondo occupando i loro volti con delle mascherine e i loro pensieri con il senso di un pericolo immanente.

Si dice, a ragione, che chi è nato dopo la Seconda guerra mondiale ha avuto la fortuna, qui in Europa, di vivere la più lunga stagione di pace di questo continente. Ma la verità è che la autentica fortuna è stata incontrare e conoscere la speranza. Quella di cambiamenti scientifici, sociali, di conquiste di libertà politiche e civili che sono, in fondo, il lascito positivo di quelle generazioni. Un adolescente europeo di oggi, per non parlare di quelli che vivono nella guerra o nella povertà, se alza la testa non immagina l’uomo sulla Luna. Immagina, meglio teme, un missile, o un aereo impazzito. Di questo ora c’è traccia nel suo vissuto.

Abbiamo misurato, con colpevole ritardo, gli effetti della pandemia sulla coscienza e lo stato d’animo dei giovani. Abbiamo potuto registrare quanta tristezza, ansia, rabbia, male di vivere questi due anni di trinciamento delle relazioni sociali, di compressione del naturale bisogno di autonomia dalla famiglia abbiano comportato nei ragazzi.

Ora, quando sembrava che si potesse finalmente riguadagnare una specie di normalità, la guerra - una guerra così vicina e così folle, così carica di conseguenze universali, come una pandemia violenta - riavvolge, specie i più giovani, in un gorgo di paura e di nero.

Le prime vittime di una guerra sono i bambini, sempre. E spesso si ignora chi vive sotto le bombe o le sofferenze delle guerre dimenticate, quelle meno occidentali. Poi arrivano immagini di ambienti urbani non dissimili dai nostri, paesaggi e colori che sembrano i nostri e allora, forse giustamente, la guerra, con il suo carico di distruzione e di terrore, ci sembra possibile, sembra riguardarci direttamente.

Penso a quel bambino morto dissanguato, penso ai piccoli malati di tumore in pericolo nella Kiev senza medicine e cibo, penso a quella bambina, avrà avuto sei o sette anni, che, rifugiata nella metropolitana, pronuncia piangendo una parola che avrebbe il diritto di non conoscere: “Io non voglio morire, voglio solo che tutto questo finisca”. Penso alla bimba infagottata in un piumino che, sul predellino di un pullman, si separa dal padre che resta per combattere, civile armato. Lo vede piangere, e allora piange anche lei.

Penso a quei bambini che diventano profughi, una parola da grandi, che sono strappati dalle loro case e sbattuti nei rifugi o messi in marcia, affamati, verso una normalità che diventa l’unica speranza possibile. I loro occhi, forse persino quelli dei nostri ragazzi, non saranno più gli stessi, ormai. Con Putin e tutti gli altri nemici delle libertà umane, il peggio del Novecento torna, sospinto dalla paura: negazione della bellezza delle diversità, insofferenza per la democrazia, violenza come regolatrice dei conflitti.

Come diceva Giorgio Gaber: “Non insegnate ai bambini. Non insegnate la vostra morale, è così stanca e malata. Potrebbe far male”.