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di Bruno Ferraro*

Libero, 4 marzo 2022

 

Nel nostro Paese da molti anni è invalsa la consuetudine di dare per scontate troppo presto l’esistenza di reati e la colpevolezza dei soggetti indagati, senza alcun doveroso rispetto per la dignità di questi ultimi e per la verità processuale, molto spesso diversa e contraria alla verità reale.

“Sbattere il mostro in prima pagina” è diventato un vezzo di certa stampa, forte di informazioni “riservate” trasmesse dalle stesse Procure con le cosiddette veline: e quando, a distanza di anni, non pochi imputati sono stati assolti e molte custodie cautelari si sono rivelate illegittime o quanto meno affrettate, il pregiudizio sofferto dalle vittime della mala giustizia non è stato adeguatamente riparato.

Il sito www.errorigiudiziari.com indica dati decisamente allarmanti: il 36,6% di proscioglimenti; 29659 casi di errori giudiziari ed ingiuste detenzioni nel periodo dal 1991 al 2020; circa 29 milioni di euro l’anno versati dallo Stato per il risarcimento delle vittime; nessuna sostanziale rivalsa dello Stato nei confronti dei magistrati responsabili del danno a causa di una legislazione a dir poco inadeguata sulla responsabilità civile.

Si tratta di una realtà dolorosa, nota da anni, sulla quale il parlamento ed il governo non erano mai intervenuti: realtà però destinata a cambiare radicalmente a seguito del Decreto Legislativo 8 novembre 2021 n° 188, emanato per dare attuazione alle direttive n° 343/2016 del Parlamento europeo e 9 marzo 2016 del Consiglio europeo. Il Decreto disciplina l’informazione e le conferenze stampa nelle procure, il rafforzamento della presunzione di innocenza delle persone indagate e il diritto di presenziare al processo nei procedimenti penali.

Di fronte al lassismo e alla superficialità del costume previgente, le innovazioni sono forti e incisive: divieto di indicare pubblicamente come colpevole il soggetto indagato fino al provvedimento di condanna irrevocabile, a pena di sanzioni penali e disciplinari, con l’obbligo di risarcimento del danno e il diritto di chiedere da subito la rettifica; rapporti con la stampa curati personalmente dal Procuratore della Repubblica o da un magistrato delegato, esclusivamente con comunicati ufficiali e, nel solo caso di particolare rilevanza pubblica, per il tramite di conferenze stampa; citazione delle attività svolte dalle Procure senza menzione del nominativo dei magistrati titolari del provvedimento; informazioni solo se necessarie per la prosecuzione delle indagini (quindi praticamente mai); ufficiali di polizia giudiziaria in conferenze stampa solo se autorizzati; diritto a un’equa riparazione per la custodia cautelare subita ingiustamente; stringente riservatezza per gli atti di indagine compiuti da pm e polizia giudiziaria; diritto dell’imputato di partecipare al processo e di consultarsi riservatamente con il difensore.

Il nostro processo penale è destinato a uniformarsi a quelli vigenti in molti altri Paesi, ancorati più di noi al rispetto di principi elementari di civiltà giuridica. Certo, i contraccolpi per l’informazione saranno rilevanti, in particolare per i cronisti giudiziari a caccia di scoop e indiscrezioni. Un prezzo dovuto al malcostume delle conferenze stampa e delle dichiarazioni avventate di colpevolezza che hanno caratterizzato il nostro Paese.

Il rischio è quello di passare da un estremo all’altro, mettendo il bavaglio all’informazione e alla libertà di stampa. A recitare il mea culpa è chiamato anzitutto il Consiglio Superiore della Magistratura per le morbide “linee guida” sulla comunicazione approvate dal plenum del 11 luglio 2018. *Presidente Aggiunto Onorario Corte di Cassazione