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di Sergei Lebedev*

La Repubblica, 2 marzo 2022

L’analisi storica e psicologica dello scrittore moscovita sulle ragioni di ciò che sta accadendo: “una mentalità razzista post-imperiale inalterata nel tempo allunga le sue radici nella nostra coscienza collettiva e nella nostra cultura”.

Ancora una volta, dopo molti anni di guerra congelata, la Russia ha aggredito militarmente l’Ucraina. Il Giorno della Disgrazia. Il più nero della nostra storia. L’attacco, dal quale eravamo stati messi in guardia, è arrivato nondimeno a sorpresa. Di fatto, il veleno dell’ostilità ribolliva da tempo. Molti oggi dicono che l’unico responsabile è il presidente Putin e che i russi sono nell’insieme contrari alla guerra, sebbene abbiano timore a manifestarlo apertamente.

Forse una parte considerevole della società è contraria alla guerra, perlopiù per ragionevoli motivazioni di interesse personale. Questo, però, non impedisce di chiederci come questa guerra sia possibile politicamente e psicologicamente. Si palesa la questione del razzismo russo post-imperiale, che era e resta il presupposto di fondo dell’aggressiva politica di Putin, sia all’estero sia a livello interno, e che non sparirà da sola, nemmeno se Putin se ne andasse.

La Federazione russa è un Paese razzista. Questo razzismo post-imperiale inalterato nel tempo allunga le sue radici nella nostra coscienza collettiva e nella nostra cultura, nella nostra lingua e nella nostra concezione del mondo, ed è radicato non in uno, non in due, ma in decine di Paesi che formano una gerarchia multi-composita dallo sciovinismo fluido. Alla metà degli anni Novanta e nei primi anni del Duemila, quando la Russia era in guerra con la Cecenia, gli atteggiamenti razzisti presero di mira le persone originarie del Caucaso. Esisteva addirittura una definizione semi-ufficiale: “Persona di nazionalità caucasica”. Era il “volto della nazionalità caucasica” che la propaganda di Stato cercò di trasformare nel volto del nemico, dell’invasore, del terrorista. L’immagine stessa del male. Poi, quando la Cecenia infine è stata occupata, molti lavoratori provenienti dagli stati dell’Asia centrale - Tagikistan, Uzbekistan, Kirghizistan e altri ancora - sono venuti in Russia per cercare lavoro. Si è andata affermando così un’altra immagine razzista, sostenuta dalla cultura popolare: quella dell’uomo “giallo”, asiatico, una creatura sporca di seconda categoria, ignorante ma astuta, che doveva servire padroni bianchi arricchitisi enormemente in poco tempo.

I due esempi citati presentano un tipo di razzismo costruito a partire dall’esplicita contrapposizione tra “noi” e “loro”, gli altri, i pericolosi esseri di serie B. Esiste poi un altro tipo di razzismo, quello contro i popoli di Ucraina e Bielorussia. Basato sul modello paternalistico e sull’ethos sovietico della “famiglia delle nazioni”. Ucraini e bielorussi sono considerati vicini, abitanti di nazioni “fraterne”, ma pur sempre collocate su un gradino più in basso di questa gerarchia familiare immaginaria: sono come i russi, ma un po’ più in basso. I russi hanno un livello gerarchico superiore. Uno studio accurato rivelerebbe decine di ulteriori motivazioni razziste diverse nei confronti delle nazioni che costituiscono la Federazione russa. Questo razzismo poliedrico è una conseguenza diretta della storia imperiale russa e della sua politica coloniale. Per settant’anni il sistema sovietico ha postulato “l’amicizia dei popoli” e l’eguaglianza delle nazioni. In verità, vi furono occupazioni e innumerevoli deportazioni; i movimenti per l’indipendenza nazionale furono imbavagliati e messi a tacere, si incoraggiò il collaborazionismo e il rifiuto di un’identità nazionale a favore del “Soviet”. Purtroppo, però, questo strumento repressivo non rimase un carattere peculiare del progetto comunista sovietico. È inverosimile che nella Russia odierna vi sia una percentuale significativa della popolazione smaniosa di riportare in vita l’ideologia comunista.

Il razzismo post-imperialista, invece, è vivo e vegeto. La leadership politica russa non considera l’Ucraina protagonista di una sua storia e di un suo destino. Nel suo prolisso discorso pronunciato per giustificare la guerra, Vladimir Putin non ha impartito soltanto una lezione storica non richiesta sull’Ucraina. In linea con la logica imperiale russa, Putin di fatto nega all’Ucraina il diritto di essere la vera Ucraina. E non si parla soltanto di indipendenza dello Stato, ma di nazione in quanto tale. Stiamo parlando di una terribile ricaduta nel razzismo post-imperiale, in virtù del quale sui territori che la Russia considera storicamente “suoi” esistono soltanto nazionalità subordinate e secondarie. Quei Paesi sono trattati con condiscendenza nel migliore dei casi, o soggetti soltanto a ubbidire agli ordini. Il loro destino è scritto da altri. Purtroppo, io credo che questi atteggiamenti mentali siano condivisi consapevolmente o inconsapevolmente, in misura più o meno grande, da una percentuale significativa del popolo della Federazione russa.

Perfino nello scenario futuro più ottimistico - la caduta del regime di Vladimir Putin - continuerebbe a esserci una domanda senza risposta: che fare del razzismo post-imperiale? Che farne, visto che permea il senso dello stato dei russi, la politica russa, la vita russa in tal misura e a tal punto da non essere neanche più notato dall’interno?

Sarebbe ingenuo pensare che, da sole, l’economia di mercato e le prassi democratiche potrebbero bastare a risolvere una volta per sempre il problema. Dopo tutto, la guerra della Russia contro l’Ucraina è, tra altre cose, il segno del crollo morale e umanitario della cultura russa, di una cultura i cui molti illustri rappresentanti - da Dostoevskij e Bulgakov a Brodskij e Solgenitsyn - furono colpiti anch’essi dal virus dell’imperialismo, dal principio di “superiorità” della lingua russa e dei suoi diritti speciali. Adesso che le parole “russo” e “russi” sono diventate ulcere lebbrose per molti anni a venire, noi russi dovremmo ripensare da zero la nostra cultura, la nostra storia, il nostro sistema politico. Il mondo non ha bisogno soltanto di una Russia senza Putin. Il mondo ha bisogno di una Russia sprovvista per sempre di una coscienza imperiale.

Molti dei miei conoscenti e amici russi oggi chiedono perdono agli ucraini. Credo che sia troppo presto per chiedere perdono. Noi, cittadini russi, non abbiamo ancora il diritto di farlo. Lo avremo soltanto quando i criminali di Stato al potere nel nostro Paese saranno assicurati alla giustizia e condannati alla punizione che meritano. Se ciò non accadrà, non ci potrà essere perdono alcuno per noi.

*Traduzione di Anna Bissanti