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di Errico Novi

Il Dubbio, 3 marzo 2022

Le motivazioni criticano di fatto tutte le proposte che mirano ad abrogare specifiche parti di una disciplina. Esce indebolito lo strumento referendario. Non solo il progetto dei comitati promotori.

Le tre sentenze con cui la Corte costituzionale motiva l’inammissibilità di altrettanti quesiti esaminati a metà febbraio su responsabilità dei giudici, eutanasia e cannabis contengono implicitamente critiche alla tecnica di tutti i referendum che colpiscano specifiche parti di una disciplina.

Ed è soprattutto l’esclusione della proposta sulle toghe che sembra destinata a suscitare repliche, giacché si regge essenzialmente sul richiamo a una giurisprudenza costituzionale ostile ai quesiti “di ritaglio”, che colpiscono chirurgicamente, appunto, specifici dettagli della legislazione, in modo da far risultare una “disciplina giuridica sostanzialmente nuova, non voluta dal legislatore”. Nella pronuncia si fa riferimento ad altre analoghe decisioni della Corte. Ma è vero che in un passato non lontano la tecnica del ritaglio è stata ammessa, ad esempio in materia elettorale.

Di certo, le tre sentenze di ieri, e soprattutto quella sulle toghe, consolidano un orientamento restrittivo. Non se ne possono rallegrare il Partito radicale e la Lega, che hanno sì visto promossi gli altri 5 quesiti sulla giustizia, ma che subiscono, con il no alla proposta sulla responsabilità dei giudici, un colpo durissimo per la rincorsa al quorum. Un po’ diverso è il quadro per omicidio del consenziente e cannabis. In particolare per il primo caso, nel quale pare più difficile ribattere alle obiezioni della Consulta relative al deficit di “tutela minima della vita” prodotto dall’eventuale vittoria del sì. Tecnicamente più complessa la già nota contestazione per la cannabis, riguardante la tabella delle sostanze riconducibile alla norma da abrogare. Inevitabili le reazioni dei comitati (di cui si dà almeno in parte conto in altri servizi del giornale).

Nella sentenza che dichiara inammissibile il quesito sulla responsabilità delle toghe (redatta dal giudice e costituzionalista Augusto Barbera) si contesta appunto il “carattere manipolativo e creativo, non ammesso dalla costante giurisprudenza costituzionale”. Si rileva pure una “mancanza di chiarezza”. In particolare perché, secondo la Corte, “la normativa di risulta non avrebbe consentito di configurare un’autonoma azione risarcitoria, esperibile direttamente verso il magistrato”, in quanto “ne sarebbero rimasti oscuri termini e condizioni di procedibilità”. Come riassume il comunicato della Consulta, la disciplina sopravvissuta al taglio abrogativo “non sarebbe stata idonea a definire i tratti e le caratteristiche della nuova azione processuale”.

Di certo, considerate le motivazioni della sentenza, sembrerebbe a questo punto impossibile abrogare le norme vigenti, cioè la legge Vassalli dell’88 e la Orlando del 2015, in modo che “sopravviva” una responsabilità diretta dei magistrati. Chi, come radicali e Lega, guardava a quell’obiettivo, non avrebbe potuto formulare il quesito se non nei termini in cui è stato sottoposto alla Corte.

Il no al referendum sull’eutanasia, o meglio sull’omicidio del consenziente, rimanda alla necessità che la disciplina risultante dall’abrogazione parziale, anche in questo caso, di una norma (nello specifico dell’articolo 579 cp) sia comunque coerente con i princìpi costituzionali. E secondo la sentenza redatta dal giudice Franco Modugno sula proposta di Associazione Coscioni e Radicali italiani (riuniti nel comitato “Referendum eutanasia legale”), “una normativa come quella dell’articolo 579 Cp può essere modificata e sostituita dal legislatore, ma non puramente e semplicemente abrogata, senza che ne risulti compromesso il livello minimo di tutela della vita umana richiesto dalla Costituzione”.

La vittoria del Sì avrebbe reso penalmente lecita l’uccisione del consenziente in tutte le circostanze diverse dai tre casi di consenso “invalido”, cioè prestato da minorenni, da infermi di mente oppure esorto con minaccia o inganno.

Qui la Consulta lascia almeno una traccia al legislatore, quando ricorda che una disciplina in materia può anche andare oltre i limiti già sanciti dalla Corte stessa con la sentenza Cappato - Dj Fabo (la 242 del 2019), ma a condizione di tutelare la vita umana dalla “collaborazione di terzi a scelte autodistruttive” senza limitarsi alla “categoria dei soggetti vulnerabili”. Scelte del genere possono risultare comunque “non adeguatamente ponderate”.

Il no al quesito sulla cannabis era già stato riferito da Giuliano Amato, nella conferenza stampa dello scorso 16 febbraio, al contrasto con le “Convenzioni internazionali” e con “la disciplina europea in materia”. La sentenza redatta da Giovanni Amoroso specifica che a essere compromessi (dal rischio che depenalizzare la “coltivazione” autorizzi l’impianto dell’oppio e della coca, oltre che della cannabis) sono gli “obblighi derivanti dalle Convenzioni di Vienna e di New York” e dalla “Decisione quadro 2004/757/Gai”.

Si obietta, al quesito, anche la mancanza di “chiarezza e coerenza intrinseca”, perché per “analoghi fatti di lieve entità sarebbe rimasta comunque in vigore la pena congiunta della reclusione e della multa”. Il quesito sarebbe stato inoltre “inidoneo allo scopo” perché sarebbero comunque sopravvissute nell’ordinamento altre norme punitive per i coltivatori di cannabis.