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di Paolo Delgado

 

Il Dubbio, 18 febbraio 2022

 

Eutanasia, cannabis e responsabilità civile dei magistrati sono temi su cui la maggioranza della popolazione ha un’opinione. Ma nessuno potrà esprimerla. L’imperizia di chi ha scritto i quesiti sicuramente ha pesato, i margini di ambiguità nella migliore delle ipotesi, gli strafalcioni secchi nella peggiore, hanno contribuito in misura essenziale all’affossamento dei referendum più sentiti dal popolo votante. La disposizione della Consulta ci ha probabilmente messo del suo, quanto meno ha spinto i giudici costituzionali a tenere gli occhi sbarrati più che socchiusi.

Le polemiche sono nell’ordine delle cose: prevedibili quanto inevitabili. Ma la conclusione non cambia di una virgola: quasi certamente la sentenza della Consulta ha affossato non tre referendum ma l’intero pacchetto, dal momento che senza i tre referendum avvertiti come i principali raggiungere il quorum sarà quasi impossibile, e ha portato a una conclusione paradossale: i cittadini non si esprimeranno dove sarebbe logico che lo facessero e potranno invece dire la loro in campi nei quali la stragrande maggioranza di loro si muove senza mappe né bussole.

I referendum ammessi non sono affatto secondari. Basti ricordare che la separazione delle carriere (in questo caso delle funzioni) in magistratura è argomento sul quale le forze politiche si scontrano da almeno trent’anni. Alla loro oggettiva rilevanza non corrisponde però il riconoscimento della stessa da parte degli elettori. Non solo perché si tratta di questioni che solo in casi circoscritti toccano direttamente la loro vita, la loro esperienza o la consapevolezza di potersi trovare un giorno a contatto diretto con situazioni come quelle sulle quali miravano a intervenire i quesiti bocciati. Questo elemento c’è e inevitabilmente ha un peso enorme ma incide anche più a fondo il fatto che i requesiti inammissibili, soprattutto quelli sulla cannabis e sull’eutanasia ma in una certa misura anche quello sula responsabilità civile dei giudici, attengono a scelte di ordine etico mentre gli altri quesiti rinviano a opzioni tecniche.

Nonostante la retorica referendaria è in realtà molto discutibile l’affidamento agli umori dell’elettorato di decisioni che presuppongono un grado elevato di competenze tecniche, mentre non lo è affatto il ricorso alla consultazione dell’intera platea elettorale quando sono in ballo scelte etiche che, per la loro stessa natura, non richiedono un sapere specifico ma riguardano direttamente la coscienza e le convinzioni di ciascuno.

La sentenza capovolge la logica, e che lo faccia in nome di qualche ‘ritaglio’ discutibile non rende l’esito meno paradossale: l’elettorato può esprimersi su temi che non conosce o conosce solo superficialmente, distanti dalla propria esperienza quotidiana mentre non può farlo sugli argomenti sui quali sarebbe invece naturale che avesse l’ultima parola e che quindi sente come molto più reali e urgenti.

L’eccezione è il referendum sulla legge Severino che, sia pure per motivi di non nobilissima lega, cioè in forza di una spinta anti- politica e giustizialista che si è indebolita ma non esaurita coinvolge molto più degli altri gli elettori. Ma è difficile che, da solo, riesca a trascinare alle urne il 50 per cento degli elettori e per questo l’eliminazione dei quesiti considerati a torto o a ragione ‘ principali’ finirà probabilmente per affossare anche gli altri per mancato raggiungimento del numero legale.

I referendum, anche così ‘depotenziati’ avranno una serie di riflessi sul quadro politico e sull’attività legislativa, Incideranno, probabilmente frenandolo, sull’iter della Severino, potrebbero creare tensioni tra 5S e governo e sono già l’ennesimo atto della lunghissima faida tra gli alleati di centrodestra, con Giorgia Meloni impegnata a conquistare il voto ex grillino schierandosi contro i quesiti più ‘ antigiustizialisti’ sostenuti dall’alleato. Il Parlamento avrebbe tutte le possibilità di sanare la situazione intervenendo con le sue leggi ma non è stato in grado di farlo sinora e non si vede perché dovrebbe riuscirci adesso.

Ma, trattandosi di referendum, il tema centrale riguarda la normativa obsoleta su un istituto che si può tenere o sacrificare. Ma se si decide di tenerlo deve anche essere messo in grado di funzionare. Proprio il caso del referendum sulla cannabis lo dimostra: i promotori sono stati costretti allo slalom bersagliato dalla Consulta per non incorrere nel divieto di quesiti propositivi. I quali quesiti propositivi, però, sono effettivamente uno strumento da maneggiare con la delicatezza riservata agli esplosivi. Rivedere le regole referendarie non è affatto compito facile e tuttavia se il l’istituto referendario deve continuare a esistere è anche un compito indispensabile.